Stelios Panayotakis (ED.): The Story of Apollonius, King of Tyre.
Vannini, Giulio ; von Humboldt-Stiftung, Alexander
STELIOS PANAYOTAKIS (ED.): The Story of Apollonius, King of Tyre. A
Commentary Texte undKommentare 38
2012. Pp. VIII, 682. Berlin--Boston: De Gruyter. Hard cover 129,95
[euro] / $ 182.00 ISBN 978-3-11-021412-3
Gli studiosi di narrativa antica hanno atteso il commento di
Stelios Panayotakis alla Historia Apollonii regis Tyri--piu precisamente
alla piu antica redazione del romanzo a noi pervenuta, la cosiddetta
'redazione A' (RA) per piu di un decennio, un lasso di tempo
che non sorprende vista l'intricatissima trasmissione
dell'opera, la sua quasi inattingibile storia e la relativa
scarsita di indagini scientifiche condotte su di essa prima che il
florido revival di studi sulla narrativa greca e latina la portasse alla
ribalta. Ma oggi quest'attesa puo dirsi pienamente rimunerata: il
commento di P., sebbene limitato alla sola RA, costituisce uno strumento
di lavoro senza eguali nel panorama degli studi sulla Storia di
Apollonio e rappresenta al contempo una sintesi delle ricerche
precedenti e un imprescindibile punto di partenza per ulteriori
indagini.
Dopo una breve prefazione che presenta il lavoro, ne descrive la
genesi e ne individua le fondamenta, una prima sezione introduttiva (pp.
1-10) riassume in otto lucidi paragrafi gli aspetti generali
dell'opera e i principali risultati emersi nel lavoro di commento
("Authorship and Date", "Structure and Content",
"Space and Time", "The Narrative Situation",
"Genre and Literary Texture", "Religion",
"Language and Style", "Transmission of the Text and
Sigla") mantenendosi per lo piu ancorata a fatti noti o probabili
senza dilungarsi in pericolose speculazioni congetturali che, nel caso
di un testo tanto particolare, avrebbero rischiato di dilatare
inutilmente la trattazione. Una pregevole caratteristica, questa, che
distingue il lavoro di P. da svariati studi precedenti e che consente al
lettore di farsi un'idea precisa e attendibile sulle principali
teorie e linee di studio.
P. concorda con Kortekaas nel collocare la stesura della RA tra la
fine del V e gli inizi del VI secolo, una datazione accettata dai piu,
ma fondata su indizi piuttosto generici--prevalentemente
linguistici--opportunamente riscontrati nel commento. La conferma piu
significativa di un'elaborazione in epoca tarda proviene dai
numerosi raffronti istituibili con la Vulgata (cf. Index locorum, s.v.),
la cui notorieta, sullo scorcio del V secolo, era gia abbastanza vasta.
La confezione della redazione sembra opera di un'unica personalita
che, rielaborando un testo anonimo 'aperto' alle
variazioni--la disposizione dell'Apollonio a subire modifiche e
documentata dalle differenze fra le diverse redazioni e fra i testimoni
di una medesima redazione--, ha agito come un autore, contraddistinto da
un proprio stile e da una propria tecnica letteraria. La struttura della
narrazione rispecchia probabilmente quella originaria: la sua unita e la
sua coerenza sembrerebbero comprovate dalla presenza di ripetizioni
tematiche, parallelismi e antitesi, tutti elementi che inducono P. a
dubitare che il testo sia stato epitomato nel corso della tradizione
come invece ipotizzano Klebs, Merkelbach e Kortekaas. I passi che hanno
destato perplessita in questo senso sono esaminati nel commento, e P.
offre risposte alternative per lo piu sensate a molti dei sospetti
avanzati da Kortekaas: cf. le note a 6.6 sul carico di grano; 8.3 su
Ellenico; 24.1 sull'arrivo improvviso di Apollonio; 25.11
sull'assenza di un riferimento ai codicilli; 28.7 sull'esilio
di Apollonio nelle ignotae et longinquae terre egiziane. Qualche dubbio
puo restare in casi come 39.1, dove la tempesta che porta Apollonio a
Mitilene anziche a Tiro e abbozzata in due righe; o
sull'interpretazione di 45.2 pereat ista civitas come maledizione,
una possibilita smentita dallo sviluppo della narrazione (45.3-46.3),
per cui la generalizzazione di Apollonio appare poco motivata, tanto piu
che i Mitilenesi erano stati pietosi con Tarsia. Piu problematici sono
l'oscurita dell'indovinello di Antioco, o la ragione per cui
alla sua morte il regno di Antiochia spetti ad Apollonio (cf. p. 305), o
il rapporto che vi e fra questi e Tarso, una citta a lui familiare;
interrogativi che continuano a dare all'ipotesi di un'epitome
un certo--dispendioso--fascino.
Analogo scetticismo P. mostra nei confronti delle presunte tracce,
rilevate soprattutto da Kortekaas, che testimonierebbero
l'esistenza di una precedente stesura in greco; ipotetici indizi
lessicali e sintattici che anche a mio parere sono in gran parte
opinabili, tanto da rendere la questione poco piu che oziosa e quasi del
tutto ininfluente per lo studio delle redazioni che ci sono pervenute,
scritte in latino e probabilmente risalenti a un modello gia in latino.
Solo in via del tutto ipotetica P. propone di giustificare un paio di
errori della tradizione come errori di traduzione dal greco (v. piu
avanti), ma di fatto prescinde dalle numerose ricostruzioni congetturali
dell'originale greco alle quali e dedicato il voluminoso commento
di Kortekaas (2007). Forse per una svista il ritmo della prosa e
considerato un tratto della RA da opporre all'ipotesi di un modello
greco (p. 9); in realta, a differenza della RB, la RA non favorisce
particolari tipi di clausole--ne accentuative ne, a quanto mi risulta,
metriche--e infatti, nel commento, P. non se ne occupa.
Anche riguardo al genere letterario P. e particolarmente cauto,
preferendo parlare di "narrative" caratterizzata da
"generic indeterminacy" piuttosto che di "novel" o
"romance", designazioni che, pur riconoscendo le numerose
differenze che distinguono la Storia di Apollonio dagli altri romanzi a
noi pervenuti, non paiono comunque illegittime--anche negli altri
romanzi si intersecano generi come l'epica, l'elegia
d'amore, l'esercitazione declamatoria, la storiografia, la
commedia, la tragedia, il mimo.
Il testo adottato come base del commento e riportato nella seconda
sezione dell'opera (pp. 16-42) riproduce solo in parte quello della
seconda edizione di Kortekaas (2004) con l'aggiunta
dell'utilissima suddivisione in paragrafi introdotta da Konstan e
Roberts (1985). Di fatto P. presenta un testo che, pur essendo privo di
apparato, e frutto di una revisione critica profonda. Le numerose
divergenze dall'edizione di Kortekaas--ben 129, se si escludono le
correzioni di sviste e refusi e il miglioramento di diverse grafie
--sono elencate prima del testo (pp. 12-15) e in una dozzina di casi
consistono in interessanti congetture dello stesso P. sulle quali mi
soffermero piu avanti.
Di ogni scelta P. da sempre ragione nel commento (pp. 43-610), che
funge sia da vaglio critico della tradizione, sia da sussidio esegetico
a tutto tondo. P. e capace di esaminare ogni segmento di testo con
capillarita e sintesi in note che, a partire da osservazioni sul testo,
la lingua e lo stile, si allargano a trattare aspetti letterari--con
attenzione ai topoi situazionali tipici della narrativa--,
storico-archeologici ed economico-sociali. P. affronta gli innumerevoli
problemi del testo con selettivita e lucidita di pensiero, orientando il
lettore fra le diverse interpretazioni senza mai astenersi dal fornire
il proprio punto di vista o una nuova chiave di lettura. Si vedano, ad
esempio, le note relative ad alcuni problemi testuali irrisolti per i
quali egli adotta le cruces, come 11.3 clipeo o 45.1 conscius quem;
ottimamente discussi appaiono anche altri problemi difficilissimi, in
cui forse l'incertezza interpretativa nasce da guasti testuali per
i quali non sarebbe stato disonorevole adottare le cruces, come nei casi
di 27.10 se fulcivit, 28.3 opera mercatus, 36.1 inlidor--anche un passo
come 50.6 quantum ... fecerunt andrebbe secondo me stampato fra cruces,
perche il senso si coglie ma la ricostruzione della frase e incerta.
L'atteggiamento di P. nei confronti del testo e assai
equilibrato, orientato com'e verso la ricerca di una giusta misura
fra l'eccessiva fiducia nei manoscritti mostrata da Kortekaas, che
ha sempre concesso poco credito alla divi natio, e l'inclinazione
di Schmeling (1988) a ritoccare la tradizione per restituire un latino
piu classicheggiante in luogo di costrutti e particolarita dubbi o
attestati solo sporadicamente in epoca tarda.
P. cerca in primo luogo di preservare in modo onesto la tradizione
mantenendo ad esempio caratteristiche linguistiche documentate nel
latino tardo rimosse da editori piu interventisti quali Riese, Tsitsikli
e Schmeling, come fugire/effugire (7.7 A), misereor + dat. (12.4,
35.11), piscabis (12.9), adoptavi i.q. optavi (22.4), proficere (24.6
s.), aestimas (29.4), ungulas (29.9), excrebuit (36.3), diffinisti
(41.13), e cosi via; ma non per questo rinuncia a correggere banali
sviste assolutamente indifendibili--valga per tutte la scelta di lezioni
o congetture richieste dalla sintassi nei casi di confusione fra
desinenze con e senza--m finale, dovuta in parte a sciatteria
linguistica dei copisti, in parte a fraintendimenti derivati
dall'uso del compendio per la nasale--e a ricorrere a congetture
piu importanti vecchie e nuove laddove egli giudica il testo corrotto.
Mi riferisco, solo per fare qualche esempio, all'adozione di ottimi
interventi, tutti giudicati superflui da Kortekaas, di Riese a 10.6 in
foro in biga, 16.2 dum vis ... agnoscere, 24.1 [eius] ventriculum
deformatum [est], 41.6 viribus, 43.5 cum prope sint, 46.5 luctuoso; di
Tsitsikli a 6.3 <innocentis>, 16.8 non <pot>est, 31.5
<hoc, quod excogitavi>; di Hunt a 20.8 naufragum, 25.7 <ut>
vidit, 30.3 intraret [et], 31.16 <si iam nulla est> vitae.
Al restauro del testo P. ha contribuito attivamente con nuove
congetture, alcune delle quali emendano persuasivamente errori della
tradizione. Se la prima che incontriamo e un semplice ritocco dovuto a
ragioni di coerenza grafica (10.7 Tharsia civitas in luogo di Tarsia
civitas), piu degne di nota sono le successive. A 13.7 l'espunzione
di velpueris come glossa di omnibus e del tutto convincente:
l'interpolazione risale molto probabilmente a qualche copista che
deve aver sentito la mancanza di un ulteriore riferimento ai servitori
del re, insistentemente menzionati nei paragrafi precedenti; speciosa e
l'ipotesi che l'errore possa nascere dalla confusione grafica
fra posi e paisi in un antecedente greco del testo, una genesi che P.
ipotizza anche per l'erroneo dierum a 47.5, spiegabile come
confusione di un originario hemeteron con hemeron. Ottima anche
l'inversione et unguibus a 25.7, che restituisce una sequenza
topica delle manifestazioni del lutto (cf. Ov. Ars 3.707 s. tenues a
pectore vestes / rumpit et indignas sauciat ungue genas e simili). A
43.1 ha senza dubbio ragione P. ad accogliere cincta comis, attestato
nella RB e in Simposio, in luogo di compta comis su cui la tradizione
della RA e concorde; mi chiedo, semmai, se non sia opportuno correggere
allo stesso modo anche il problematico vincta comis a 43.2, che non ha
paralleli. Buoni appaiono anche alcuni interventi che rivaleggiano con
congetture tradizionalmente accolte nelle edizioni critiche, fra i
quali: 21.1 perlecto[s] codicillo[s], supportato dai paralleli in 20.4,
20.7 e 21.4; 25.5 adversis ventorum flatibus in luogo di austris della
tradizione, sul quale gia il redattore B sembra essere intervenuto per
congettura (variis); 39.12 et <ait>, confrontabile con 2.5,
un'integrazione economica quanto l'espunzione di et operata da
Schmeling, ma coerente con l'integrazione di ait adottata a 4.2
sulla scorta di Riese. Altre proposte, certamente meritevoli di essere
avanzate in sede di commento, possono destare qualche dubbio e per
questo sarei stato meno propenso a recepirle nel testo. A 25.5
<im>pie e congettura attraente, ma appesantisce la frase e non e a
mio parere preferibile all'espunzione di pie come erronea
anticipazione di pelagus. L'idea a 39.12 nullum, ere in luogo del
tradito munere e seducente, perche fornisce al contempo un vocativo e un
pronome idonei al contesto, ma il senso della frase cosi ricostruita non
richiederebbe come verbo reggente invenisti anziche il tradito elegisti?
A 48.12 la correzione di rex nominis in regis nomine restituisce una
sintassi impeccabile, anche se presuppone una tendenza del cod. P a
sostituire forme flesse con un nominativo sclerotizzato che e difficile
da dimostrare (P. rinvia a 51.13 filium, quem rex ... constituit);
proporrei piuttosto di espungere nominis come glossa, che ha danneggiato
il normale costrutto rex appellari (ThLL II, 274, 66 s.). A 50.9 P.
ricostruisce <toto an>imo, corpore contremuit, un'idea
plausibile a patto che si integri--come P. suggerisce nel commento
--anche et dopo animo, poiche corpore richiede un aggettivo. Poco
convincente, infine, la congettura per ustionem in luogo di per
unctionem a 26.12, poiche il raro ustio e in generale urere e perurere
indicano un'intensa bruciatura causata dal freddo--comunque poco
adatta a designare il raffreddamento del corpo della donna, ben
descritto dalla congettura <a> perfrictione di Hunt--solo se
accompagnati da termini come frigus e gelu.
Sull'assetto del testo influisce inevitabilmente l'idea
che P. ha della RA e della sua relazione sia con le altre redazioni a
noi pervenute, sia con l'archetipo dei testimoni, anche se le
informazioni che egli da a questo proposito sono particolarmente
succinte (p. 10). Da esse si ricava che egli accoglie le conclusioni
esposte nella prima edizione di Kortekaas (1984), ammettendo cosi la
dipendenza della RB dalla RA (p. vii) piuttosto che da un modello dal
quale le due redazioni sarebbero derivate indipendentemente, una
ricostruzione che giustifica la scelta di commentare la sola RA e nella
quale, in gran parte, anch'io credo. Il fatto e che la facilita con
cui in quest'opera sono state introdotte delle variazioni non ci
consente di stabilire con esattezza quale stadio della tradizione possa
essere definito RA--secon do P., evidentemente, qualcosa di non troppo
distante dai testimoni in nostro possesso, secondo me uno stadio piu
remoto, ancora esente da interpolazioni ed errori introdotti da
personalita diverse talvolta anteriormente alla stesura della RB. Vi
sono infatti molti passi problematici nei quali e difficile credere che
il testo dei codici, sebbene piu o meno suffragato dalla testimonianza
della RB, sia l'esito di una consapevole attivita redazionale e non
abbia piuttosto assorbito corruttele e interpolazioni frequenti in ogni
tradizione manoscritta. In casi del genere l'acribia con cui
Schmeling ha tentato di emendare il testo tradito e, secondo me, del
tutto giustificabile, eccezion fatta, naturalmente, per i passi in cui
egli indulge a ricondurre tratti linguistici di eta tarda alla norma
classica o si spinge a ricostruire, sotto il titolo di 'RA',
il modello delle due redazioni congetturato da Klebs (cf. ad es.
l'espunzione di 1 RA fiamma concupiscentiae, rielaborato in
cupidinis fiamma nella RB). Cercare di difendere la paradosi e
fondamentale per un'analisi veramente critica del testo, ma, dato
lo stato in cui la RA ci e giunta, e necessario essere altresi prudenti
nell'attribuire delle lezioni sospette all'attivita organica
di un redattore anziche riconoscere in esse guasti e interventi di epoca
successiva. Per questi motivi, oltreche per ragioni che riguardano
singoli passi, puo capitare che io non concordi con alcune scelte e
posizioni di P. Di seguito, alcune diversita di vedute e qualche nuova
proposta.
La propensione a rispettare il testo tradito induce P. a
riconoscere un'interpolazione solo in casi in cui la frase non
funziona, ma non sempre elementi spuri sono privi di senso nel contesto,
quando non sono stati addirittura adattati nel corso della tradizione,
come nel caso di 8.11 pro ... pertulisse e 8.12 sicutpaulo ante dixi,
che si puo decidere di espungere o meno a seconda dell'archetipo
che si intende restaurare. Cosicche, se molte volte P. e in grado di
riscattare con valide motivazioni elementi solitamente ripudiati, nei
casi seguenti gli argomenti in difesa del testo non mi paiono abbastanza
cogenti ed e secondo me preferibile ricorrere all'espunzione: 2.4
atque vidisset (Thielmann); 11.1 sive diebus (Klebs); 16.8 esse (F,
Schmeling); 18.7 medici (F, Hunt), che non mi pare adeguatamente
supportato ne dall'esempio del piu ordinario templum ... in quo
templo a 48.6 (H.-Sz. 563), ne dai casi di ripresa pleonastica discussi
da Lofstedt adPeregr. Aeth. 3.1, in cui il nome e immediatamente
giustapposto al relativo, ne dall'esempio di loculo a 25.11, la cui
desinenza in P (loculum) e indizio di interpolazione; 25.6 non fuit
mortua, sed quasi mortua (Ring), una frase sospetta piu per la forma che
per l'anticipazione che fornisce; 40.11 venire (Riese), non perche
sia indifendibile in dipendenza da ut ... procederet, ma per i confronti
interni con 39.11 e 40.7; 40.13 volens (Kortekaas), che difficilmente
potra accompagnare contra voluntatem "as a variant of expressions
such as uolens nolensque"--se proprio si vuole conservare il
termine, e preferibile ritoccarlo in nolens (Riese), da intendere in
funzione predicativa; 42.12 sine vestibus (Tsitsikli); 44.2 nefarium est
(Riese), che e probabilmente l'esecrazione posticcia di uno scriba
cristiano nei confronti del suicidio, per mantenere la quale P.
sottoscrive la dubbia interpretazione di tantae prudentiae virum mori
velle nefarium est come "authorial aside"; 47.3 omnia (Ring),
forse erronea anticipazione di moenia. Piu possibilista nei confronti
dell'espunzione sarei stato, almeno in sede di commento, anche nei
casi di 1.4 flamma concupiscentiae (Schmeling), di cui ho detto sopra;
16.7 melos cum voce (Ring); 29.5 natalium (Schmeling), probabilmente
glossa di stemmatum (Hunt); 42.7 quae fertur (Riese), che potrebbe
addirittura rappresentare una correzione con parola-segnale--presupposta
anche dall'intervento di Renehan che P. adotta a 46.2--con cui si e
tentato di reintegrare il relativo quae, forse omesso prima di fertur
velox e caratteristico di altre soluzioni fornite da Apollonio; 16.8
plus isto quod audivimus (Merkelbach), poiche i precedenti melius e
dulcius sono, a rigore, avverbi comparativi. Forti dubbi nutro infine su
32.7 pro scelere quod excogitaverat, poiche quomodo dipende da
consiliata, che non puo reggere al contempo pro scelere; 38.1 pietatis
... causam, pleonastico in concorrenza con l'altro complemento di
causa ob beneficium eius e dislocato in modo sospetto; 48.12 nominis (v.
sopra).
Analogamente P. tende a minimizzare la presenza di omissioni alle
quali si e in grado di opporre soltanto un segno di lacuna congetturale
(accolta a 11.3 ter; 47.1; 50.1), anche se la loro incidenza potrebbe
essere maggiore e ascrivibile a incidenti della tradizione piuttosto che
a interventi deliberati. L'esistenza di una lacuna mi pare infatti
probabile almeno a 16.11 et <...> induit (Renehan); 27.5 et
<...> discipuli (Hunt); 45.1-2 est reddita <...> et dixit
(Riese); ed e secondo me ipotizzabile anche a 27.4 ait <...>
deprecor; 31.2 ornatam <...> omnibus; 37.1 civitatem Tharsiam
<...> addomum; 37.7 a nobis <...> subitaneo.
Vi sono, infine, casi in cui la difesa del testo tradito, per
quanto legittima e doviziosamente argomentata, non riesce a persuadermi
del tutto. A 6.3, ad esempio, P. accoglie l'ottima integrazione
innocentis di Tsitsikli, ma perche mantenere il successivo innocens nel
senso di "sano e salvo", quando e piu probabile che si tratti
dell'erronea dislocazione di innocentis (cf. Hunt 1983, 336), una
tipologia di errore che P. stesso ammette di frequente nella tradizione
della RA (7.1; 25.7; 31.5; 33.6; 42.4; 46.2; 50.6)? Lo stesso vale per
gener a 4.2, che e molto probabilmente un'erronea anticipazione del
successivo genere. Fuori posto sembra anche 40.14 lugentem coniugem et
filiam, persuasivamente trasposto dopo in tenebris da Tsitsikli. A 33.3
sed Athenagora nomine princeps eiusdem civitatis eqs. l'unico
parallelo addotto per difendere l'anomala presenza di nomine e
Plin. Nat. 16.205 celebravit et Thericles nomine calices ex terebintho
solitus facere torno, dove celebravit e congettura di Mayhoff--che
nessun altro editore recepisce--in luogo del genuino celebratur da cui
dipende l'abl. di limitazione nomine, per cui o si espunge nomine
sulla scorta della RB o si traspone Athenagora nomine dopo civitatis. A
33.1 qui Tharsiam rapuerunt ... advenerunt, l'uso del perfetto
rapuerunt e una trasandatezza che difficilmente un redattore si sarebbe
concesso e cercare di difenderla mi pare piu dispendioso che ipotizzare
uno scambio di--a--con--u--(Riese) facilissimo in carolina. Anche a
35.11 et illi dolentes miserentur virginitati meae il tempo verbale ha
qualcosa che non va: P. difende miserentur di AVac ("the process is
ongoing") contro miserti sunt di P, palesemente congetturale ma
necessario dopo obtulisti; qui, secondo me, due banalissime sviste hanno
guastato una subordinata finale (ut ... misererentur).
Al di la delle differenti opinioni che si possono avere sulla
trasmissione del testo e su singoli passi di un'opera tanto
problematica, quello di P. e senza dubbio un commento eccellente, frutto
di lunga riflessione, ampia informazione e intelligenza critica,
destinato a diventare uno strumento di lavoro primario ed essenziale per
chiunque si interessi seriamente alla Storia di Apollonio. La qualita di
un commento e direttamente proporzionale alla sua capacita di appagare
chi lo consulta, sia pure occasionalmente, senza frustrarne la legittima
aspettativa di trovarvi risposte--e, perche no, anche interrogativi o
sospensioni di giudizio--su aspetti, problemi e difficolta del testo;
una qualita rara, che nella storia degli studi sull'Apollonio non
esiterei a definire nuova, e che il lavoro di P. possiede.
Corredano il volume un'ampia e aggiornata bibliografia (pp.
611-653) e tre indici--Rerum, Nominum et Verborum, Locorum (pp.
654-682)--che rappresentano utili chiavi d'accesso alternative alla
lettura continua e ad loc.
Reviewed by Giulio Vannini, Universita per Stranieri di Perugia /
Alexander von Humboldt-Stiftung, e-mail giulio.vannini@unistrapg.it