摘要:Dottoranda in Comunicazione e Nuove tecnologie (XX ciclo) presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM; Collabora a attualmente con l'Istituto di Comunicazione della stessa Università. Valentina Orsucci Dottoranda in Comunicazione e Nuove tecnologie (XX ciclo) presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM; Collabora attualmente con l'Istituto di Comunicazione della stessa Università. Elisabetta Risi Dottoranda di ricerca 'QUA_SI' - 'Tecnologie per la comunicazione e l'informazione applicate alla società della conoscenza e ai processi educativi' presso l'Università degli studi di Milano - Bicocca, dove si occupa in particolare di digital divide; Collabora a progetti di ricerca dell'Istituto di Comunicazione dell'Università IULM di Milano. 1. Raccontare e raccontarsi per esistere Le teorie socio-psicologiche di impronta post-modernista sottolineano la relazione esistente tra le fragilità e le contraddizioni del nostro tempo e la crisi dell'identità dell'uomo contemporaneo (Crespi, 2004), caratterizzata dalla frammentazione, dalla saturazione e dall'instabilità (Gergen, 1973; Bauman, 1991). La complessità sociale, la vorticosa accelerazione del cambiamento e la mancata aderenza ad un progetto comunitario condiviso, hanno generato nell'uomo contemporaneo dei meccanismi di difesa orientati più a comportamenti narcisisti-egoistici e all'isolamento che ad atteggiamenti pro-attivi di partecipazione sociale e politica (Crespi, 2004). L'unicità riconosciuta al proprio sé viene a sgretolarsi sotto i colpi di un'epoca in cui il sovraccarico di relazioni e di stimoli genera un processo di saturazione sociale (Gergen, 1991) che "corrode l'idea di un sé individuale, ne disperde l'essenza, lo decentra e lo scompone, producendo una molteplicità di voci dissonanti che mettono in dubbio" le certezze accumulate lungo la propria esistenza (Poggio, 2004, p. 50). È la crisi delle grandi narrazioni di Lyotard (1978) a indurre la riscoperta dei micro-cosmi interiori, dell'intimità delle singole storie individuali e a porre nuovamente al centro il 'valore narrativo' della propria storia da riscoprire, rinarrandola a se stessi e agli altri. Questo percorso intimo e insieme relazionale di messa in discorso del proprio sé muove i suoi passi dal desiderio di ripercorrere, attraverso la memoria autobiografica (Marsala, 2003), le tracce della propria esistenza partendo proprio dai ricordi e dall'immagine che in essi lentamente si delinea attraverso l'oggettivazione narrativa. Da un lato quindi alla memoria personale è riservato il compito di custodire le fasi della propria vita e i momenti salienti che rappresentano l'espressione della nostra identità, dall'altro la narrazione diventa la forma essenziale per l'oggettivazione di questa immagine interiore, per la sua socializzazione e il confronto con quelle che gli altri ci restituiscono. Nelle pagine che seguono, cercheremo di approfondire, per quanto possibile, il valore della narrazione nel processo di costruzione identitaria al fine di introdurre due ricerche empiriche: la prima incentrata sull'uso del metodo narrativo nella ricostruzione delle storie di vita di tossicodipendenti, la seconda volta a sottolineare il carattere formativo degli aneddoti che caratterizzano la vita familiare di più generazioni. 2. Narrare è. Il 'paradigma narrativo' fonda le sue radici nello sforzo comune di molte delle discipline delle scienze umane come l'epistemologia, l'antropologia, la storia, la paleontologia, la sociologia e la psicologia che hanno progressivamente riconosciuto l'importanza del concetto di narrazione: "le storie, siano queste costruite dallo scienziato che dalla persona comune, sono apparse come modi 'universali' per attribuire e trasmettere significati circa gli eventi umani" (Smorti, 1997 p. 10). La narrazione non rappresenta infatti esclusivamente una modalità linguistica della messa in discorso di certi contenuti sulla base di regole e di strutture prestabilite. Come ci hanno dimostrato diversi studiosi (Bruner, Shank, etc.), la nostra mente segue una struttura narrativa che costituisce, accanto al sistema logico formale, lo schema cognitivo alla base dei nostri processi di memorizzazione e organizzazione della conoscenza. Detto in altro modo, le storie costituiscono "il sistema più efficiente per rappresentare, interpretare e memorizzare sequenze complesse e coordinate di azioni messe in atto da soggetti dotati di intenzionalità" (Di Fraia, 2004, p. 32). Ma le storie non sono semplicemente un 'fatto cognitivo'. Esse sono state definite anche la moneta di scambio di ogni cultura (Bruner, 1990), lo strumento più semplice e più diffuso per la trasmissione della conoscenza condivisa, di ciò che permette di sentirci parte di una comunità. E la testimonianza dell'importanza delle storie nella formazione dei legami comunitari è rappresentata dalla ricchezza del patrimonio narrativo delle società tradizionali, dove le storie costituivano l'unico canale di trasmissione della conoscenza: "la narrazione è in un certo senso connaturata all'uomo, non si ha testimonianza di civiltà che non hanno utilizzato la narrazione, essa traversa le culture, le epoche, i luoghi, è presente da sempre e, forse, sarà sempre presente, si potrebbe dire che con il nascere della socialità, della relazione interumana è nata la narrazione ed insieme alla relazionalità stessa è l'unico elemento da sempre presente" (Batini, 2000). Ancora, le narrazioni condivise svolgono l'importante funzione di conservazione del patrimonio comunitario proprio grazie alla perpetuazione nel tempo attraverso l'atto del raccontare agli altri. Infine, non possiamo dimenticare il carattere pedagogico da sempre delegato alle storie siano esse aneddoti semantizzati o semplice frutto della fantasia (si pensi alle favole della tradizione popolare e ancor prima al ruolo svolto dai miti nelle civiltà del passato). Le due ricerche che prenderemo in considerazione nelle pagine successive, in realtà, focalizzano l'attenzione su un particolare tipo di storie, definite dalla Sommers (1992), storie ontologiche, ovvero quelle narrazioni "che gli attori usano per dare senso alle proprie vite, (che) sono finalizzate all'azione e alla base della costruzione dell'identità" (Smorti, 2000, p. 11). In modo particolare, i due studi, che di seguito proponiamo, focalizzano su dimensioni diverse dell'identità messa in discorso attraverso la narrazione e quindi sottolineano funzioni formative differenti. La pedagogia narrativa sottolinea, infatti, la stretta relazione tra formazione e racconto, non solo in veste strumentale, ma anche come 'soggetto' della formazione, specificando che "ogni processo formativo è di per sé narrativo" (Batini, 2000): la relazione narrativa che si instaura tra narratore e ascoltatore genera uno scambio dialogico di negoziazione del proprio sé, fondamentale per qualsiasi percorso di formazione e di empowerment. Mentre attraverso la condivisione di aneddoti familiari possiamo rintracciare i tratti della nostra identità sociale (Crespi, 2004), ovvero di ciò che siamo agli occhi degli altri, la ricostruzione della propria storia di vita è certamente un processo più intimo, volto a dare voce al proprio io. Sono tuttavia entrambi modi per prendere le distanze da se stessi oggettivati nel testo della propria storia. Se dovessimo utilizzare le parole di Bruner (1990), potremmo dire che attraverso le storie degli altri è possibile ricomporre i numerosi frammenti del 'sé distribuito', presente "in quei pezzi di mondo che la narrazione si incarica di portare 'dentro' al soggetto" (Smorti, 2000, p. 31). Le storie condivise assumono quindi un'importante funzione di verifica e di confronto della propria immagine attraverso gli occhi dell'altro: essere nel mondo significa essere esposto agli sguardi degli altri che ci restituiscono la nostra immagine attraverso il racconto (Cavarero, 2001). Raccontare di se stessi agli altri ha invece una funzione differente. Narrare la propria storia vuol dire dare voce ad un "io tessitore, che connette, intreccia, costruisce e satura, ma soprattutto si muove alla ricerca del senso della vita" (Poggio, 2004). Parlare di sé al mondo è un modo per condividere il lavorìo continuo che caratterizza la dinamicità del nostro self. Del racconto autobiografico possiamo individuare alcune caratteristiche. Innanzitutto si tratta di un 'atto intenzionale' (Demetrio, 2005) perché, come abbiamo già detto, si concretizza sotto le azioni dell'io che opera, tessendo le trame della sua storia, una 'selezione' tra gli accadimenti che hanno segnato la sua esistenza. In questo senso, oltre ad essere frutto di una 'costruzione' la narrazione autobiografica è anche un atto creativo che 'genera' appunto uno degli spazi possibili dell'esposizione del self: l'avere affidato al racconto, sia esso orale che scritto, immagini del vivere, del fare e del pensare, ci restituisce "solo alcuni indizi della nostra vita trascorsa o in divenire e di quel che riteniamo di essere nell'atto di esporci o di essere stati" (Demetrio, 2005, p. 43). Ancora, alla narrazione autobiografica, va riconosciuta una funzione formativa e, possiamo dire esistenziale: raccontare di sé vuol dire innanzitutto dare ordine al disordine interiore dell'esistenza (Olagnero, 2004), oggettivare, sistematizzandole, parti dell'identità continuamente in fieri, fino al nostro ultimo giorno. Solo la narrazione può fornire "continuità alla nostra esperienza di noi" (Poggio, 2004, p. 56) perché "è un processo di sviluppo nel tempo che (.) collega insieme un inizio e una fine" (Brockmeier, 1997, p. 82). Per concludere, la narrazione, come qualsiasi altra forma del racconto, è soprattutto un atto esplicativo: (come ci suggerisce Battacchi, 1997), narrare è innanzitutto 'spiegare'. Utilizzando il significato più esteso di questo termine è possibile concludere questa parte introduttiva sottolineando il ruolo principale della narrazione, che è proprio quello di 'capire il senso' dell'esistenza che si dispiega nel racconto: l'attività ordinatrice della narrazione permetterebbe così di distendere i nodi e gli intrecci della matassa per recuperare anche il 'senso' dell'inizio e della fine. 3. "Percorsi di tossicodipendenze" 3.1 Obiettivo della ricerca La ricerca qui presentata rappresenta un tentativo di applicazione del metodo narrativo nello studio di percorsi biografici di tossicodipendenze. Obiettivo principale del lavoro era quello di capire come i soggetti dipendenti da sostanze stupefacenti "testualizzassero" la propria storia (Batini, 2002, p. 16), organizzando una narrazione lineare, coerente e significativa a partire da esperienze destrutturate e devianti quali sono per loro stessa natura le esperienze di dipendenza (cfr, ad esempio, Ravenna, 1997). Se la funzione principale della narrazione autobiografica è quella di re-interpretare il proprio vissuto a partire dal presente, costruendo una trama coerente e consequenziale (cfr, fra gli altri, Batini, 2002; Bruner, 2002; Demetrio, 1996; Di Fraia, 2004), ci siamo chiesti se e attraverso quali strategie narrative anche soggetti dalle identità fragili e dalle storie di vita inevitabilmente complesse potessero, attraverso il racconto, costruire storie 'buone'. Il presente a partire dal quale ci si racconta rappresenta il punto di vista della narrazione, il criterio attraverso cui si selezionano gli elementi da includere nella trama, il senso della stessa, e il progetto biografico che sottende ad essa e orienta il proprio futuro (Smorti, 1994 e 1997). A partire da questa considerazione, nel nostro studio abbiamo provato a ricostruire gli strumenti narrativi che i soggetti hanno adottato da un lato per contestualizzare e giustificare le scelte che li hanno portati ad essere ciò che sono, e dall'altro per immaginare il proseguimento della propria storia a partire dal presente costruito attraverso la narrazione. Il racconto del proprio passato, dunque, come punto di partenza per spiegare il proprio presente e per scegliere il proprio futuro. 3.2 Metodologia e campione La ricerca è stata condotta su un campione costituito da 15 soggetti maschi, suddivisi in tre gruppi composti, rispettivamente, da 5 tossicodipendenti da eroina, da 5 utilizzatori non dipendenti di diverse sostanze stupefacenti, e da 5 non utilizzatori di droghe (quest'ultimo avente funzione di gruppo di controllo). La distinzione dei gruppi ha consentito, in fase di analisi, di ricondurre le differenze all'intensità della presenza della sostanza nella biografia del soggetto, per comprendere il ruolo della dipendenza nello sviluppo identitario. Applicando i presupposti del paradigma narrativo, secondo cui le narrazioni rappresentano la più naturale forma cognitiva attraverso la quale gli individui rappresentano agli altri e a sé stessi la propria vita (Bruner, 1990; Di Fraia, 2004; Scheibe, 1996; Somers, 1994), abbiamo messo a punto uno strumento di ricerca che enfatizzasse le potenzialità della narrazione autobiografica. Seguendo la proposta di Mc Adams (1993) abbiamo chiesto agli intervistati di immaginare e di raccontare il 'libro' della storia della propria vita. Costruita interamente su questa metafora narrativa, la traccia dell'intervista ricalcava la struttura della più classica scheda di analisi del contenuto letterario. Abbiamo cioè chiesto agli intervistati di immaginarsi il numero e il contenuto di ciascun capitolo nel quale questo libro metaforico è suddiviso, di attribuire un titolo ad ogni capitolo e all'intero testo, di individuare e descrivere i personaggi in esso coinvolti, i punti di svolta della trama, il genere narrativo al quale può essere ricondotto ecc. Questo ha permesso di rendere espliciti, narrativamente, i meccanismi di generazione di senso, le strategie di giustificazione del proprio passato, i processi causali degli eventi riportati ecc. In secondo luogo, abbiamo chiesto ai soggetti di immaginarsi, ancora in chiave narrativa, il proseguimento della propria storia, in termini di direzione e soprattutto di scelte di orientamento, proprio per cercare di comprendere la 'linea rossa' del racconto (Demetrio, 1996), e il meccanismo principale alla base delle decisioni e, conseguentemente, delle giustificazioni al proprio passato. La ricerca qui presentata è di tipo conoscitivo e descrittivo. Lo stesso metodo, comunque, è quello applicato dalla Comunità di recupero dove sono stati reclutati gli intervistati per progettare e attuare l'intervento sui ragazzi ospiti. 3.4 L'analisi del materiale Attraverso il racconto del proprio libro di vita, gli intervistati sono riusciti ad osservarsi da un punto di vista quasi esterno, oggettivizzando la propria storia e ri-conoscendola con occhi nuovi. Anche noi abbiamo voluto analizzare le interviste narrative raccolte cercando di mantenere e replicare questa distanza fra il soggetto e la storia raccontata, traducendo tale relazione in quella intercorrente fra un autore e il proprio romanzo. In altre parole, sostenendo anche in questa fase della ricerca la metafora narrativa alla base del metodo messo a punto, abbiamo analizzato le storie di vita raccolte proprio come fossero dei libri, nei quali è certamente più immediato riconoscere una progettualità e una linea di sviluppo a partire dall'analisi degli elementi testuali e della loro contestualizzazione. Abbiamo pertanto studiato il materiale raccolto attraverso l'individuazione e l'analisi degli elementi strutturanti la composizione pentadica delle storie, secondo la proposta di Bruner (1998): attore, azione, scena, scopo e strumento. Per ciascuna di queste categorie, e per quelle da noi aggiunte, abbiamo effettuato un'analisi prevalentemente formale, riflettendo sui punti che seguono.