È una fotografia. Raffigura un corpo. A una prima occhiata, non si capisce se si tratta di un corpo maschile o femminile. La testa, in primo piano, è rovesciata, e la capigliatura, rada, sfuma nell’ombra in basso. Forse è una donna dai capelli corti; ha le braccia ripiegate all’indietro. La parte superiore comprende un seno nudo e un bacino, con il sesso femminile ben distinguibile, un sesso glabro; il corpo è appoggiato su un tessuto di colore rosso pieno di pieghe. S’intitola Untitled 261 ed è un’opera dell’artista americana Cindy Sherman. E’ realizzata nel 1992 utilizzando manichini di plastica acquistati presso una casa di forniture mediche. Altre fotografie della serie ci fanno capire che l’artista sta esibendo “atti sessuali”. La cosa non è chiara, poiché, pur essendo evidente che si tratta di parti anatomiche montate, c’è qualcosa di strano nei loro gesti. In un’altra immagine la donna indossa un grembiule con un seno nudo disegnato in rilievo, e una testa maschile rovesciata, disposta tra le sue gambe, proprio contro il sesso. È un manichino, ma ha qualcosa di osceno, e al tempo stesso d’innaturale; è un manichino, ma è anche un corpo umano.Cindy Sherman appartiene a quella serie di artisti che all’inizio degli anni Novanta il critico Jeffrey Deitch ha esposto in una collettiva intitolata Post Human. Il tema centrale è quello delle identità cangianti. Il corpo umano non è più solo il terreno di una operazione artistica, come era accaduto nella Body art degli anni Sessanta: è invece inteso come limite, confine biologico, e al tempo stesso come luogo di una protesta, di una provocazione che ha evidenti significati sociali e politici. In questa arte, che Deitch e altri critici, come Francesca Alfano Miglietti, definiscono postumana, ciò che è in gioco è l’identità: “l’identità è il nuovo campo d’azione dell’arte. Corpi e identità che vogliono somigliarsi, corrispondersi, nelle mutazioni, nei flussi, nelle alterità di scambio e di incontro, di opere e testi”.A metà degli anni Ottanta Cindy Sherman ha realizzato una serie di lavori intitolati Disasters dove il corpo è rappresentato in parti (piedi, mani, pelle) e ferito, vittima di un disastro già accaduto, come un corpo freddo e persino decomposto. In una intervista, a proposito di Disasters l’artista ha dichiarato: “Non so perché, ma penso alla morte tutti i giorni, forse perché vivo a Manhattan, leggo i giornali e penso possa accadere in qualsiasi momento. È affascinante il fatto di non essere preparati a questo”. Il centro del lavoro della Sherman è l’oscillazione dell’identità femminile, come ha spiegato in modo efficace Rosalind Krauss in Celibi, libro dedicato proprio a questa identità mutante, in cui il femminile non si oppone più al maschile in modo antitetico, ma produce, se così si può dire, una sorta di maschile femminilizzato o di femminile mascolinizzato.Lo si vede bene in alcune fotografie surrealiste di Man Ray degli anni Trenta (Anatomie e Cappello) esibite da Rosalind Krauss, o nella celebre immagine di Marcel Duchamp travestito da donna (Rose Sélavy, 1921) o, ancora, nelle sconcertanti immagini di una surrealista semisconosciuta, Claude Cahun, che Rosalind Krauss ha riscoperto e mostrato in un saggio di Celibi: un essere umano che oscilla tra il femminile e il maschile, non un androgino, piuttosto uno (o un) Bachelor, identità mutante in cui maschile e femminile si scambiano continuamente di posto, sino a risultare, sul piano della definizione di identità, perfettamente intercambiabili.La formula Post Human definisce tutto questo. L’oggetto dell’azione di questi artisti, ma anche scrittori e filosofi, è la trasformazione del corpo, la sua disidentificazione, e la trasmigrazione verso altre forme o espressioni in cui il genere e la forma non definiscono più l’essere umano, la sua singolarità e appartenenza. Orlan, che trasforma il profilo del proprio volto attraverso una serie di operazioni chirurgiche trasmesse in diretta; Franko B. che agisce con abrasioni, tagli, sanguinamenti, in modo cruento sulla sua persona; Pierre et Gilles, una coppia di artisti francesi, che lavora invece, in modo più soft, ma non meno inquietante, sull’identità sessuale; e ancora Stelarc che definisce progressivamente il confine incerto tra uomo e macchina mediante protesi, innesti, interventi meccanici e tecnologici.Siamo di fronte a quel Kitsch, in forme estreme, descritto da Broch nei suoi interventi? Oppure è accaduto “qualcosa” negli anni Novanta, qualcosa che ci permette di leggere in modo differente il paesaggio culturale e artistico di quel decennio? Nell’introduzione a Post Human Jeffrey Deitch traccia un’analisi rapida e sommaria, e tuttavia efficace, di quello che è accaduto nel decennio precedente e descrive il nuovo paesaggio degli anni Novanta facendo riferimento alla crisi dei concetti e dei valori, crisi che, scrive, “non investe solamente modelli di personalità, ma anche modelli politici e sociali”. La fine del regime comunista sovietico ha determinato “la dissoluzione di uno dei massimi sistemi ideologici assoluti”. Così, nell’orbita capitalista, l’incrinarsi del modello giapponese, il tramonto del reaganismo e del thatcherismo, la chiusura delle grandi fabbriche, la riduzione continua dei posti di lavoro, i prepensionamenti coatti, hanno distrutto l’opinione che“il corporativismo moderno avrebbe compiuto qualunque sforzo per salvaguardare i suoi fedeli adepti”. Deitch usa più volte la parola “crollo” per indicare il paesaggio sociale, in cui trionfano due nuove tecnologie: l’informatica, con la realtà virtuale, e le biotecnologie, con l’ingegneria genetica. “La combinazione di questi due sistemi tecnologicicreerà non solo nuove forme di vita e nuovi canali di comunicazione, ma determinerà nuovi modi di percepire il tempo e lo spazio e condurrà addirittura a nuove strutture di pensiero”. Il tono è dato da una strana mescolanza di apocalisse e utopia, raffigurazione di un paesaggio costellato da rovine e macerie e di un nuovo spazio sociale e individuale determinato invece dalla promessa di una nuova palingenesi. La coppia apocalisse/utopia è il segno sotto cui s’iscrivono le opere artistiche, letterarie e cinematografiche del decennio: in un mondo di rovine, si aggirano i nuovi “uomini” forniti di strabilianti tecnologie che recano con sé qualche aspetto “barbaro”, come se, per sorgere, il “nuovo” avesse bisogno di abbattere l’ “antico” ma soprattutto la rovina fosse la necessaria condizione estetica del post human.Deitch lo intuisce nel suo testo e parla di modelli ideologici che stanno diventando sempre meno razionali: “Il crollo di molti sistemi ideologici gerarchici dell’era moderna e la loro sostituzione da parte di strutture alternative dialettiche ci allontana dal pensiero gerarchicamente strutturato per indurci a visioni più intuitive, meno strutturate e a un modo di pensare più irrazionale. Un atteggiamento più irrazionale può dunque rappresentare un approccio più adatto ad un mondo che sembra aver perduto ormai la sua fede utopistica nelle soluzioni razionali”. L’utopia di Blade Runner, di cui parla Deitch, ha dunque una base irrazionale, ed è figlia della “critica della ragione” portata avanti, sin dalla fine della seconda guerra mondiale, dal “pensiero critico” della Scuola di Francoforte, dalla filosofia post-strutturalista diMichel Foucault e Gilles Deleuze. Ma c’è anche un elemento che Deitsch fa derivare dalle esperienze quotidiane e non solo dai sistemi filosofici, e che si compendia nelle opere che espone nella propria mostra. Muta l’idea stessa di Io: “Si avverte la sensazione che ognuno possa facilmente costruire il nuovo cui anela, libero dalle coercizioni del proprio passato e del proprio io”. Reinventare se stessi è un fatto ormai comune. L’arte non anticipa più questo mutamento, ma lo mima, lo mostra direttamente e in forme eclatanti. Robert Gober usa frammenti del corpo per creare una “realtà paurosamente fantastica fatta di arti che fluttuano liberamente separati l’uno dall’altro e di stati emotivi incongrui”; nel medesimo modo lavora Georg Lappas usando immagini, mentre Mike Kelley fonde insieme uomini e animali, Charles Ray uomini e manichini, e Paul McCarthy uomini e macchine: perversione, artificiosità, innocenza, bestialità, confusione, sono i sostantivi che definiscono meglio le opere esposte in Post Human.La chiusa del testo di presentazione della mostra contiene una interessante osservazione: “Ciò che sappiamo è che presto i progressi tecnologici ci costringeranno a sviluppare un nuovo codice etico. Avremo bisogno di costruire una nuova struttura morale che indicherà ad ogni individuo come comportarsi di fronte alle scelte enormemente importanti che dovrà operare in termini di alienzazione genetica e di ampliamento computerizzato delle facoltà cerebrali. Dovremo prendere decisioni non solo riguardo a che cosa sembra bene, ma su cosa è bene e su cosa è male rispetto alla ristrutturazione della mente e del corpo”.Davvero dal Post Human sorgerà una nuova etica? E poi, è davvero ancora necessaria l’etica? Quale sarà il rapporto tra etica ed estetica?