摘要:Teatri sfarzosi o sordidi, troupes vagabonde, logorio delle prove, impresari in angustie, liti di primedonne, misteri e miserie del mondo delle quinte: sono argomenti di lunga durata; il teatro non è solo una forma d’arte, è anche un tema, aperto a infinite variazioni. Come tutte le altre forme d’arte, naturalmente; ma forse in misura più massiccia, o almeno più appariscente. Fra le tante ragioni della sua fortuna ce ne sono due che risaltano particolarmente, più superficiale la prima, più profonda l’altra: il teatro è un serbatoio di topoi duttili, congeniali a trame picaresche come ad ambientazioni salottiere, a vicissitudini tragiche come a situazioni farsesche; è inoltre un tipo di creazione che induce a riflettere particolarmente su problemi fondamentali quali il rapporto fra verità e illusione, la transizione dall’idea al risultato, le vicende della ricezione. Naturalmente il tema prospera innanzitutto nel teatro stesso; quella del teatro nel teatro è una tradizione proteiforme e ricchissima, che ha preso le connotazioni più varie, apologetiche, ambigue, didattiche, distruttive: dalla Spanish Tragedy di Kyd all’Illusion comique di Corneille, dalle scene en abyme dei drammi shakespeariani (The Taming of the Shrew, Love’s Labour’s Lost, Midsummer’s Night Dream, Hamlet) fino al burrascoso dialogo fra scena e extrascena della trilogia metateatrale pirandelliana (Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto). E per il tema il metateatro è inevitabilmente la sede più problematica, perché lo volge in incessante interrogativo sul senso stesso del teatro, dunque sul proprio senso; un interrogativo che, attraversando numerosi secoli, esprime visioni divergenti, che può tradursi in rivendicazione della capacità di trasmettere verità cruciali, invariazioni sulla propria precarietà, in espressione del rischio di scadere in intrattenimento fugace o di logorarsi su copioni ripetitivi, e poi nella riflessione sui pericoli dell’identificazione eccessiva e sulla crescente difficoltà di comunicare significati univoci e assoluti. Ma il tema può attrarre anche altre forme, quali il romanzo e il cinema: fuori dal perimetro definito, dalla “stanza della tortura” del metateatro, può sprigionare significati magari meno profondi, ma proprio per questo a volte più flessibili, densi di implicazioni più varie. La quantità di opere narrative e cinematografiche che ha ispirato è molto ampia e anche molto sfaccettata; probabilmente difficile da ripartire in vere e proprie tipologie. Qui comunque non cercheremo di farlo; ci limiteremo a qualche osservazione su alcune delle costanti che la percorrono. I motivi di superficie più ricorrenti sono coloriti e, come si è detto, elastici. Le peripezie delle compagnie itineranti, ad esempio, animano narrazioni differenti per epoca e registro, dal Roman Comique di Scarron al Capitain Fracasse di Gautier, fino allo Scaramouche di Sabatini. E la realtà squinternata dello spettacolo, intessuta di difficoltà finanziarie e comportamenti stravaganti, è materia di generi diversissimi: dalla ramificata produzione settecentesca, che annovera pamphlets (Il teatro alla moda di Marcello), poemi eroicomici (La Lulliade di Calzabigi), opere buffe (Prima le parole, poi la musica di Casti e Salieri), fino aromanzi di pieno o tardo Ottocento quanto mai dissimili, contraddistinti da una prospettiva severamente moralista, come Gli artisti da teatro di Antonio Ghislanzoni, o ruvidamente disincantata, come Nana di Zola (su cui torneremo); per poi riemergere ancora nella produzione novecentesca.Ma se queste sono le frange più ammalianti o divertenti del tema, seguirne la miriade di occorrenze non è forse molto produttivo; proveremo piuttosto a riflettere brevemente su due questioni che il tema coinvolge, due componenti fondamentali della finzione scenica: i camuffamenti e le fluttuazioni dell’identità, e l’espressione senza riserve dei principali moti dell’animo. Sia che l’attore prevarichi sui ruoli, sia che tenda a sprofondarvi camaleonticamente (è una differenza spesso sottolineata, ad esempio da Jouvet, con la distinzione fra acteur e interprète), la recitazione impone sempre un’alterazione della personalità, una lacerazione dei confini dell’io; lacerazione talora accentuata dal dissolvimento delle barriere più vincolanti, l’età e il sesso (dissolvimento fino al Seicento addirittura prescritto, con il divieto alle donne di calcare le scene, che richiedeva agli uomini di sostenere parti femminili; e poi perseguito dagli azzardi di vari mattatori, come la Bernhardt che indossò i panni di Amleto, o i vari Rossi, Zacconi, Duse che, già anziani, si calavano disinvoltamente in ruoli di giovani). E questa lacerazione si intreccia spesso a quella dei limiti e compromessi della quotidianità, dunque alla manifestazione incandescente di tensioni diverse: dai vertici del pathos della tragedia alla carica liberatoria del riso nella commedia, fino alle scelte irrevocabili e ai conflitti brucianti che nell’Ottocento contraddistinguono il dramma romantico, la rivisitazione di Shakespeare, il melodramma dei boulevards. Come è evidente, poi, il Novecento ridiscute e sovverte ampiamente queste caratteristiche del teatro, con la tecnica dello straniamento codificata da Brecht, con le sperimentazioni che aboliscono la comunicazione verbale e così via; sono sviluppi che trascuriamo, per esigenze di sintesi, ma anche perché buona parte della fortuna tematica del teatro ci sembra ancora legata alle sue forme tradizionali. Queste forme, quelle ottocentesche soprattutto, possono essere suggestive quanto destabilizzanti. L’adesione dell’interprete a parti dissimili, o anche il suo attaccamento a uno stesso personaggio (che, come è ovvio, non necessariamente coincide con la sua persona effettiva) mostrano le potenzialità dell’io; ma al tempo stesso ne aggrediscono la coesione o addirittura ne suggeriscono la labilità (non a caso, secondo un paradosso che ha spesso trovato conferme, l’attore che meglio sa incarnare qualsiasi identità è quello che di identità propria non ne ha affatto). Il trasporto delle emozioni e l’intransigenza dei comportamenti messi in scena offrono (come ha sottolineato Peter Brooks) una forma sostitutiva di assoluto, ma al tempo stesso ne rammentano il carattere appunto sostitutivo, dunque fragile, continuamente smentito dalla realtà, dai suoi veti e impacci, come dalle sue esitazioni e incoerenze. Questo potere seduttivo e disorientante del teatro rende oscillante e imprevedibile il suo rapporto con la vera vita: sono appunto queste oscillazioni e questa imprevedibilità l’aspetto del tema che più attirala narrativa e il cinema, quello in cui si inoltrano le loro trame.Vi si inoltrano lungo direzioni molteplici, già tracciate o più autonome. Particolarmente classica è quella che si inscrive in una costante sempre più marcata della letteratura ottocentesca, l’antinomia fra arte e esistenza, la dipendenza della perfezione estetica dal risucchiamento o dall’annullamento dell’intensità vitale; e si cristallizza nel topos dell’adesione esclusiva al teatro, della sua trasformazione in culto che fagocita o eclissa l’esistenza: fra gli esempi più estremi Il consigliere Krespel di Hoffmann, in cui la giovane e dotatissima cantante Antonia non rinunzia a una vocazione che la malattia polmonare da cui è affetta rende sempre più pericolosa, andando così incontro a una fine prematura.Questo topos trova poi insieme un ribaltamento e una conferma in alcune fiammeggianti variazioni sui costi del mestiere e sulle rivendicazioni della realtà: dalle lagnanze del grande attore (modellato su una figura autentica) in un famoso dramma di Dumas (poi rielaborato da Sartre), Kean ou Désordre et génie (1836), sul “mestiere maledetto… in cui nessuna sensazione ci appartiene […] dove, col cuore spezzato, bisogna recitare Falstaff o col cuore pieno di gioia bisogna interpretare Amleto”;fino alla truculenta vicenda, nei Pagliacci di Leoncavallo (1892), dell’attorucolo da strapazzo che, scopertosi tradito, si costringe dapprima a recitare sebbene “preso dal delirio”, ma finisce poi per imporre la sua vera identità a quella fittizia del pagliaccio, uccidendo la moglie in scena.Nel Novecento ad appropriarsi del topos è soprattutto il cinema, che lo sottrae alle declinazioni più categoriche per aprirlo a registri disparati: l’ottimismo di Morning Glory di Sherman (1933) in cui la vocazione teatrale della giovane debuttante (Katherine Hepburn) giunge a una trionfale affermazione (culminante nella classicissima battuta rivoltale dal produttore “Ora appartieni a Broadway”, disseminata poi in forme simili o identiche in un numero infinito di pièces, film, musical); l’atmosfera più varia e contrastata di Stage Door di La Cava (1937, tratto da una commedia di Edna Ferber e George Kaufman), incentrato su un gruppo di attrici esordienti (che comprende di nuovo la Hepburn) la cui passione per il teatro offusca ogni altra passione (il film è un rarissimo caso di opera “al femminile” che non concede quasi spazio all’elemento amoroso), ma in modi diversi, che vanno dall’ambizione sfrontata alla disperata ossessione; il pathos della Carrosse d’or di Renoir (1952) – adattamento di una pièce di Mérimée (La Carrosse du Saint Sacrement) che si inscrive nella linea avventuroso-esotica del filone – in cui la primadonna di una compagnia girovaga (Anna Magnani) scopre nella recitazione l’unica dimensione salda, contrapponendola all’incostanza e alle delusioni dei rapporti sentimentali; i toni elegiaci di Limelight di Chaplin (1952) in cui, diversamente dal Canio di Leoncavallo, il vecchio Calvero rimane clown fino alla fine, con una dedizione alla realtà di cartapesta che oltrepassa ogni interesse e sofferenza di quella concreta. Qualunque chiave scelgano, le opere citate sottolineano sempre il divario fra l’illusione scenica e l’esperienza autentica; varie altre invece provano a esaminarne l’interazione. Fra gli svolgimenti letterari più ambigui si può rammentare ancora un romanzo di Gautier, Mademoiselle de Maupin (1835), che non è come Capitaine Fracassetutto di argomento teatrale ma ha un capitale snodo nella rappresentazione di una commedia di Shakespeare, As You Like It: questa commedia, imperniata sulla fluidità dei ruoli, funge da mise en abyme(in modo meno lineare di quanto per lo più avviene nel metateatro) di una narrazione che ruota intorno alla crisi dell’identità e allo sconvolgimento dei sentimenti. La Rosalind travestita da uomo della pièce viene difatti interpretata dalla Madeleine travestita da uomo del romanzo e la passione, in modo diverso destabilizzante, che il suo fascino androgino ha suscitato negli altri due personaggi principali, Rosette e d’Albert, trova espressione attraverso la vicenda shakespeariana: la complessità degli amori fittizi aiuta a dispiegare quella degli amori reali, la recita porta a galla le tensioni dell’intreccio. E d’altra parte non le risolve: il ruolo di Rosalind chiarisce l’identità femminile di Madeleine, ma non smuove il suo rifiuto della femminilità tradizionale, e se i rapporti della commedia si assestano in una nitida geometria, quelli della narrazione proseguono in modo tortuoso e anticonformista; alla regolarità dell’happy end matrimoniale di Shakespeare viene opposto un finale insolito, segnato dal culmine trasgressivo della relazione triangolare e dalla malinconia del suo scioglimento.Fra le trattazioni cinematografiche più suggestive e interessanti spicca Les Enfants du Paradis di Carné (1945), dedicato al melodramma ottocentesco e alla sua sede privilegiata, il parigino Boulevard du Temple, ribattezzato, in virtù delle fosche vicende che ne animavano i palcoscenici, Boulevard du Crime. Il film sovrappone gli eccessi della scena a quelli della realtà, si conclude con un delitto e con la lacerante separazione degli innamorati protagonisti; le avventure e i dolori rappresentati si accavallano a quelli vissuti, edanno loro voce in modi diversi, illustrati da due generi, la pantomima e il dramma, e dagli stili dei loro interpreti (ispirati a figure reali), quello sobrio e struggente del mimo Baptiste Dubureau (Jean Louis Barrault) e quello energico e istrionico del guitto Frédérick Lemaître, uno dei protagonisti per eccellenza del Boulevard du Crime (Pierre Brasseur). Il teatro appare l’unico punto fermo, in grado di dare senso e compiutezza a un’esistenza labile (in cui tutti i personaggi sono sradicati, tutti gli amori, in maniere differenti, destinati allo scacco e ogni meta concreta irraggiungibile): quasi casualmente, con la pantomima che espone il fallimento amoroso e il destino di privazione di Baptiste ancor prima che questi se ne sia interamente reso conto; o deliberatamente, con l’Otello che Frédérick vuole e sa rappresentare solo una volta provato il tormento della gelosia, in una rielaborazione degli stati d’animo mediata dalla coscienza di penetrare in un’altra dimensione (diversamente che in occorrenze analoghe – A Double Life di Cukor [1947], in cui il protagonista, a lungo interprete di Otello, è travolto dal personaggio al punto di ricalcarne quasi esattamente la sorte – qui l’attore non è completamente irretito dal palcoscenico, piuttosto imbastisce con esso un dialogo ininterrotto, mantenendo uno spericolato equilibrio fra il travaglio psicologico e la sperimentazione artistica). Molto spesso, invece, l’interazione fra scena e vita si configura come un tragitto rettilineo e consolatorio, e la rappresentazione appare, più che mise en abyme, vero e proprio psicodramma, tale da permettere non solo la manifestazione perentoria dei desideri e dei conflitti ma anche il loro limpido accomodamento. Naturalmente la casistica è varia: comprende esempi spigliati e accattivanti, come il musical di Cole Porter Kiss me Kate, adattato per lo schermo da George Sidney nel 1953, in cui la messinscena di The Taming of the Shrew provoca prima l’esplosione, poi il gioioso appianamento dei dissidi fra regista e attrice (classicamente marito e moglie); e altri più ambiziosi, come il film di Kenneth Branagh, In the Heart of a Bleak Midwinter (1995), in cui l’allestimento di Hamlet da parte di una compagnia raccogliticcia, partito come frettolosa accozzaglia di aspirazioni, diviene progressivamente spinta all’introspezione psicologica e alla verifica esistenziale (ogni attore è mosso dal dramma a riflettere sulla propria storia personale, di cui, in un finale un po’ troppo edificante, la sera della prima sancisce la più o meno felice risoluzione).Già da questa rapida ricognizione balza all’occhio un leitmotiv: per quanto dissimili siano i testi e i film menzionati, Shakespeare c’è quasi dappertutto; il tema trova nella sua opera un fulcro privilegiato, una sorta di epicentro. Nulla di cui stupirsi, naturalmente: non solo perché si tratta del nume del teatro per definizione, ma anche perché la varietà dei suoi registri è tale da pungolare emozioni di tipo opposto, da prestarsi come sfondo di vicende tragiche, ilari, agrodolci; è stata difatti per il cinema non solo la fonte inesauribile di adattamenti fedeli, trasposizioni libere, riecheggiamenti impliciti, ma anche l’oggetto di omaggi di segno vario, enfatici o spiritosi, canonici o scanzonati. Fra i più intensi e anticonvenzionali val la pena di ricordare una commedia di Lubitsch, To Be or not to Be (1942), altro straordinario film sul teatro, non ricostruzione d’epoca ma registrazione dell’attualità: l’attualità scottante della dittatura hitleriana e della guerra in corso, affrontata senza enfasi, con un misto di dura franchezza e umorismo effervescente. Nella vicenda di una compagnia polacca che durante le repliche di un Hamlet appoggia un complotto antinazista (riuscendo infine a fuggire in Inghilterra) la recitazione si configura al tempo stesso come passione che allontana dalla realtà e come strategia per osteggiarne la violenza. Se l’interpretazione del principe di Danimarca assorbe tanto il capocomico (Jack Berry) da distrarlo fino all’assurdo dalle circostanze (clamoroso l’equivoco in cui i colleghi lo credono affranto per l’invasione tedesca mentre a sconvolgerlo è l’insuccesso del suo monologo), il teatro diviene altrove il tramite di una protesta contro le circostanze quanto mai vibrante: l’attore di second’ordine che, per proteggere la fuga dei compagni, ferma l’inseguimento dei nazisti con la declamazione di un noto passo di The Merchant of Venice – l’accorato lamento di Shylock sull’antisemitismo –realizza da un lato il suo grande sogno professionale, dall’altro rende l’arte funzionale alla realtà; non solo superficialmente, come manovra diversiva, ma anche, a un livello più profondo, come veicolo di una condanna piena e dolente della persecuzione razziale in atto. La dismisura fervida della declamazione teatrale consente una ribellione circoscritta ma bruciante alla brutalità dei fatti, costituisce un’atipica forma di engagement: l’artificio e la verità approdano a un intreccio bizzarro quanto felice, la rivalsa dell’interprete apre il varco al traboccare dell’indignazione contro i crimini del nazismo. Il film, dunque, fa leva sulla caratteristica del teatro che ricordavamo prima, l’espressione sbrigliata e totale dei sentimenti, nella realtà sempre inibita e frustrata da impacci vari, che si tratti di codici comportamentali, proibizioni oggettive, autocensure personali (per inciso, nel cinema di Lubitsch il riferimento a Shakespeare sottolinea anche in altri contesti lo scarto fra l’empito degli ideali e la piattezza della quotidianità; spassosissima la scena di un film successivo, Cluny Brown (1947) in cui un altro rifugiato polacco, raffinato e impegnato intellettuale, recita, per omaggiare la famiglia che lo ha accolto in Inghilterra, l’esaltazione della “sceptred isle” del Richard II, mentre i suoi ospiti, nella migliore tradizione dell’aristocrazia britannica ignorantissimi, non capiscono visibilmente cosa stia dicendo). Nella vicenda, inoltre, la simulazione si snoda ben al di là del palcoscenico, in forme eccentriche o ordinarie: quelle richieste dal frangente eccezionale, i travestimenti tesi a ingannare i nazisti, che creano un irresistibile gioco di rimbalzi fra finzione e verità (il capocomico rischia sempre di tradirsi, perché il suo narcisismo lo porta continuamente ad accennare alla propria effettiva identità di attore); e quelle legate alla vita abituale, le menzogne retaggio dell’infedeltà, peraltro lontane dal tracciato più canonico (l’attrice protagonista – Carole Lombard – mente più che al marito, al romantico amante che la crede stanca della professione e in cerca dell’amore ideale, mentre allo spettatore è chiaro che gli unici autentici interessi di lei sono al contrario il teatro e il prosaico ma fortissimo rapporto coniugale).L’idea dello spettacolo come insolita forma di resistenza contro la dittatura ritorna in un film peraltro diversissimo, Le Dernier métro di Truffaut (1980), in cui un regista ebreo (Heinz Bennent) dirige clandestinamente una pièce a Parigi durante l’occupazione tedesca, nascondendosi nel sotterraneo del teatro e fornendo le indicazioni necessarie a sua moglie, la prima attrice (Catherine Deneuve), che è l’unica al corrente della sua presenza (la trama, per inciso, riprende un topos seducente e duraturo – che ha una celebre variazione in uno dei romanzi sul teatro più adattati per lo schermo, Le Fantôme de l’Opéra di Leroux – quello dell’anima nascosta del palcoscenico, dell’ispirazione segreta e tormentata, impenetrabile al pubblico, che ne alimenta lo splendore). E il rifugio costituito dal teatro permette non solo di fronteggiare l’aggressione della realtà, ma anche di assorbirne e insieme decantarne gli stimoli: l’allestimento della pièce porta la protagonista a innamorarsi di un altro attore (Gérard Depardieu), ma non scioglie il suo rapporto con il marito, e la storia si conclude con il felice assestamento (insolito nella filmografia di Truffaut) di un triangolo sia professionale che amoroso. Si è appena osservato che To Be or not to Be varia anche su uno degli aspetti più vistosi e indagati del tema: la finzione della scena è la forma di simulazione per eccellenza, ma naturalmente non è la sola; non tanto perché secondo un vecchio cliché gli attori fingono sia sul palcoscenico che fuori, ma soprattutto perché il topos seicentesco del mondo come teatro trova continui aggiornamenti, e al teatro la vita sociale fa notoriamente sempre concorrenza, con gli intrecci capillari delle bugie e delle manipolazioni, con la distribuzione e i giochi delle parti, con l’assunzione temporanea o permanente di ruoli e maschere. La sovrapposizione fra simulazioni teatrali e simulazioni effettive ispira molte narrazioni: fra cui una diversa da tutte quelle finora considerate (in varia misura sempre di taglio corale), Theatre (1936), un romanzo di Somerset Maugham impostato, nonostante il titolo, non tanto come affresco di un ambiente, ma piuttosto come studio della psicologia di un’attrice, Julia Lambert (non a caso tradotto in italiano come La diva Julia). Il romanzo sembra concentrato sulla sfera dei sentimenti privati; nondimeno, il teatro non fa, come in tante altre opere (ad esempio L’Invitée di Simone de Beauvoir) da semplice sfondo dell’intreccio, ma è suo costante, implicito protagonista. Questo intreccio sfata la fede nei sentimenti in modo non preliminarmente esplicito ma sottilmente graduale; il trompe l’oeil della scena è riproposto sulla pagina: le passioni della protagonista (quella, rievocata in una lunga analessi, per il marito, Michael, attore, produttore e regista, e quella, al centro della storia, per Tom, un affascinante arrivista molto più giovane di lei), che sembrano obbedire ai più convenzionali paradigmi romantici, si rivelano effimere, e la sua versatilità nell’aderire a identità diverse appare l’unica sostanza della sua identità. Più in generale, nell’aridità affettiva dell’universo descritto le uniche passioni durevoli sono quelle ostentate sul palcoscenico, di cui è sottolineata la natura posticcia; contrariamente ad alcune delle opere che abbiamo ripercorso, il testo irride ogni possibilità di travaso dalla vita alla scena e indica la radice del pathos esibito nella freddezza della tecnica: quando Julia prova a riversare nell’interpretazione di una pièce un suo effettivo momento di scompiglio interiore scade in una performance enfatica e mediocre. Se il testo svolge questa visione dell’arte teatrale (naturalmente ispirata a teorie già codificate) in modo piuttosto rigido, mostra d’altronde con finezza le forme molteplici che il suo ruolo di compensazione può assumere: la scena non è solo l’unico momento di energia e espansione assoluta dei sentimenti, ma anche, occasionalmente, il rimedio alle ipocrisie della convivenza e alle disfunzioni dei legami. Costituisce infatti il più forte spazio di tensione dei rapporti: in quanto vera sede dell’antagonismo (Julia si vendica della giovane attrice sua rivale in amore durante la prima di una commedia, offuscandone la presenza e sottraendole anche il privilegio anagrafico con la pluralità delle sue risorse) e in quanto miglior chiave della comunicazione (Michael, che non ha mai capito la moglie come donna – tanto da non comprendere né il suo tormentoso amore per lui, né labrusca fine di questo amore, né la sua successiva infedeltà – ne intuisce invece perfettamente, con l’esercitata sagacia del “vecchio guitto”, il gioco di attrice, la deliberata mortificazione della comprimaria). Da questo testo è stato tratto un film carino e ben recitato (Julia du bist zauberhaft di Weidenmann, 1962) ma che ne stempera l’affilato sarcasmo in un buonumore più leggero e conciliante. Può essere più interessante raffrontarlo a un celebre film di Mankiewicz, All about Eve (1950, tratto da un racconto di Mary Orr, The Wisdom of Eve): una descrizione pungente del mondo della scena, in bilico fra umorismo e dramma, imperniata sul topos del confronto fra la diva affermata e quella in ascesa, che confronta la simulazione rigorosa del teatro con quelle della socialità, più soggette a incepparsi ma altrettanto tendenti a riproporsi, solo con continui mutamenti dei ruoli (la rete di imposture di Eve, l’astuta attrice emergente, finisce per smagliarsi e in conclusione il personaggio passa da artefice a vittima della simulazione); e che dà ampio peso alla capacità dell’interprete di negare il tempo con ruoli inadatti alla propria età, e al faticoso virtuosismo su cui questa capacità si basa (lasciando comunque aperto qualche classico spiraglio consolatorio: la divamatura trova la sua realizzazione più compiuta fuori dal palcoscenico, con un rassicurante matrimonio). Il film è anche un esempio di come spesso nel cinema la rappresentazione del lavoro dell’attore e del suo statuto di divo riceva ulteriori risonanze dagli interpreti a cui è affidata; un esempio reso estremamente calzante dal tempo, in un caso tipico di autonomia dell’opera. Lo scontro fra le due star protagoniste si regge su due affinate tecniche di recitazione, quella istrionica di Bette Davis e quella felpata di Anne Baxter; ma se entrambe, specialmente la prima, sono giustamente rammentate come grandi attrici, nessuna delle due è divenuta un’intramontabile icona dell’immaginario: sorte toccata invece a un’interprete minore del film, allora semisconosciuta, che cesella proprio la parte di un’attricetta senza talento e si chiama Marylin Monroe. Sullo schermo la rappresentazione del teatro è forse più frequente e vivace che nella narrativa, per così dire più intima; e quasi sempre, anche se aggressiva e derisoria, si risolve in un’appassionata e contagiosa testimonianza d’amore. E l’attenzione ai meccanismi teatrali diventa un modo di evidenziare e ridiscutere i propri; i due mezzi, chiaramente diversissimi (uno votato a un divenire continuo, l’altro a un risultato irripetibile), presentano altrettanto chiare analogie: le logiche del divismo, il legame con le contingenze del mercato e soprattutto la rinuncia preliminare all’ideale di una volontà autoriale pura e solitaria per l’accettazione di un itinerario creativo più accidentato, “sporcato” e arricchito dalla contaminazione, magari dalla frizione fra competenze diverse. Quest’ultimo aspetto è al tempo stesso trattato seriamente e spiritosamente dissacrato da un film di Woody Allen ambientato negli anni Venti, Bullets over Broadway (1994), che si concentra sul problema del passaggio dall’ideazione alla realizzazione, privandolo però della sua aura tradizionale e smontando anzi il mito dell’autore. L’iniziale tipica situazione del commediografo ambizioso, smanioso di difendere la sua opera dai protagonismi degli attori (fra cui una diva al tramonto che fa esplicitamente il verso a All about Eve) e dalla più pericolosa intromissione del gangster che la finanzia, è scalzata da una situazione ben più eccentrica: la priorità della creazione su capricci e interessi passa a essere difesa dal più improvvisato degli autori, il guardaspalle del gangster che, forzato ad assistere alle prove, si è scoperto un insospettabile talento per il teatro, intervenendo sulla commedia con ritocchi decisivi. La vita, come sbuffa uno dei personaggi, “non è perfetta e in più è breve”; e ancora le viene contrapposta la perfezione dell’arte: ma è una perfezione anomala e imprevedibile, che proprio dall’imperfezione della vita ha tratto la sua linfa.Per lo più, le opere di argomento teatrale trascurano l’altro essenziale polo di ogni messinscena, il pubblico, concentrandosi invece su quello degli interpreti, o più in generale della gente di teatro. Non c’è da sorprendersene: è il polo per l’appunto alla ribalta, in senso proprio e figurato, intorno a cui si possono congegnare grandi intrecci e protagonismi; quello degli spettatori è altrettanto per definizione più in ombra, stimola meno facilmente l’immaginazione, difficilmente fornisce lo spunto su cui orchestrare un’azione intera. Molto più spesso, invece, costituisce una svolta della trama, magari secondaria sul piano degli eventi, ma decisiva su quello del senso, in quanto strumento di investigazione delle dinamiche psicologiche; è difatti uno snodo caratteristico di celebri romanzi ottonovecenteschi, che peraltro fanno in genere riferimento non al teatro di prosa ma a quello lirico, in grado di suscitare trasporti più immediati, identificazioni più viscerali. E, con qualche eccezione (il passo di Guerra e pace che descrive codici e convenzioni dell’opera attraverso l’ottica straniata di Natascia; un sardonico racconto di Gadda, Teatro), è soprattutto il brivido dell’identificazione e del trasporto a essere materia di analisi: in Madame Bovary (1857) il provvisorio quanto estremo rapimento di Emma, travolta dalla Lucia di Lammermoor al punto non solo di sentirsi invaghita del famoso tenore che vi si esibisce ma di scorgere in lui un’emozione corrispondente; nei Buddenbrook (1900) la passione per il teatro di Hanno (iniziata con l’ascolto del Fidelio e culminante in quello del Lohengrin), vissuta come transitoria e radiosa negazione di un’opprimente e temuta realtà; fino a varianti più leggere come l’ascolto della Traviata nel Metello di Pratolini (1955) – fra l’altro rievocazione dell’epoca primonovecentesca in cui l’opera era diletto nazional-popolare e i proletari si contendevano i posti di loggione – che coincide con i primi approcci fra il protagonista e la vicina di casa (graziosa variazione su un’altra costante, la congenialità alle avances dell’atmosfera onirica tipica dal teatro, come poi del cinema). Sono modelli che il cinema riecheggia, oppure porta a esiti nuovi, sebbene più che con il riferimento al teatro con l’autoreferenzialità diretta: si pensi al turbinio di proiezioni e sdoppiamenti di un altro splendido film di Allen, The Purple Rose of Cairo (1985). La focalizzazione sul pubblico, dunque, può prendere pieghe diverse, ma per lo più insiste sui sortilegi dello spettacolo e sui suoi vertiginosi effetti: l’assaporamento della finzione, lo smarrimento in una smemoratezza trasognata, l’abbandono toccante o ridicolo all’immedesimazione. Assai più raramente l’accento verte su un tipo di impatto diverso, basato non sul lavorio meticoloso dell’interpretazione ma sul puro urto dell’esibizione, non sul dominio classico dello spettatore ma piuttosto sull’abbandono alla sua mercé. Fra gli esempi più efficaci si può ricordare l’incipit della già citata Nana (1880), che descrive con burlesca crudezza la sgangherata messinscena di un’operetta di argomento mitologico (fra quelle nate sulla scia della Belle Hélène) in un teatro paragonato proprio dal suo proprietario a un bordello. Tale messinscena segna l’estemporanea affermazione di vedette della protagonista, che pure è smaccatamente goffa e stonata; ma la cui palese inadeguatezza non ne sminuisce, anzi quasi ne accresce le attrattive, perché ne rende più imperiosa la sgraziata esuberanza e ne lega la seduzione al gusto di poterla disprezzare. Queste pagine sembrano quasi prefigurare dinamiche e ragioni del successo di alcuni fenomeni televisivi contemporanei: azzardandosi a precisare, la bellezza a buon mercato e la sfacciata imperizia che caratterizzano Nana, e il clamore intriso di dileggio che la circonda, fanno venire in mente un personaggio che proprio in questi giorni imperversa sia sul piccolo schermo che su tutti i tipi di giornali, Loredana Lecciso; non staremo poi a chiederci se la sua fama è destinata a durare quanto quella dell’eroina di Zola.In questa carrellata abbiamo inserito solo opere di fantasia, seppur talora ispirate a fatti e personaggi reali; concludiamo ricordando che esiste un altro tipo di narrazione sul teatro, quella che si rivolge direttamente alla realtà, ma tendendo sempre, classicamente, a ingrandirla, colorirla, deformarla; la narrazione ordita dagli stessi protagonisti della scena, oppure da autori a loro vicini, da opere successive, dalla curiosità popolare, la narrazione che si condensa in biografie, autobiografie, memorie, storie romanzate, resoconti orali. L’argomento sarebbe vastissimo; basti qui fermarsi a una sola osservazione: in una delle innumerevoli sfasature fra finzione e verità, questo fluviale romanzo sul mondo della scena può trascurarne aspetti essenziali o ingigantirne altri meno determinanti. Accenniamo solo a due esempi, abbastanza speculari. Una delle più tipiche vicende romanzesche di ambito teatrale è la relazione fra Duse e D’Annunzio, argomento, come è noto, di un romanzo vero e proprio, Il Fuoco di D’Annunzio stesso, e sopravvissuta inoltre nell’immaginario attraverso varie cronache e ricostruzioni; ma se i due protagonisti di questa vicenda sono stati, è scontato rammentarlo, figure di grande spicco, il loro sodalizio non ha lasciato sulla storia del teatro un’impronta decisiva. All’opposto, sicuramente non dice più nulla a nessuno (specialisti a parte) il nome di Maddalena Marliani, attrice del Settecento rievocata solo in opere dimenticatissime (come un romanzo del misconosciuto abate Chiari, La commediante in fortuna), ma che contribuì significativamente a una svolta capitale del teatro, la riforma goldoniana. L’attrice lavorava infatti nella compagnia Medebac, per cui Goldoni scrisse a lungo:era destinata alle parti di servetta, mentre i ruoli principali spettavano alla moglie del capocomico; e il commediografo ricorda nei Mémoires, peraltro fugacemente, che fu il suo brioso talento (insieme al desiderio di sottrarsi ai capricci della primadonna) a ispirargli l’idea di infrangere in modo inedito la costrizione dei ruoli prefissati, senza sconvolgerne l’assegnazione, ma rielaborandone dall’interno la gerarchia col mettere il personaggio della servetta al centro della pièce. Un’intuizione che aveva implicazioni enormi, sia sul piano psicologico e sociale che su quello compositivo, che sconvolgeva le logiche sceniche e gli svolgimenti più prevedibili dell’azione; e da cui scaturì (insieme ad altre due commedie importanti, La serva amorosa e La cameriera brillante) una delle opere teatrali più riuscite di tutti i tempi, La locandiera, fra i primi esempi di dramma borghese, tanto scorrevole e ameno quanto stratificato e complesso, tale infatti da sollecitare non solo le più varie letture critiche ma anche le più varie soluzioni registiche, di taglio politico, psicoanalitico, umoristico, patetico; e con al centro una figura, Mirandolina, affascinante quanto ambigua, adatta quindi a spronare interpretazioni sempre diverse, e da noi considerata a lungo banco di prova indispensabile per ogni vera attrice. Il tumultuoso rapporto fra D’Annunzio e Duse è entrato nella leggenda del palcoscenico ma nonha inciso a fondo sulla sua realtà; mentre la prosaica sinergia fra Goldoni e Marliani (che forse aveva anche una connotazione sentimentale, rimasta però misteriosa), lasciata al contrario nelle quinte del palcoscenico più polverose, nella sua aneddotica più oscura e peregrina, è stata elemento della sua metamorfosi e sfondo di riuscite sperimentazioni della recitazione e della regia. Le avventure ricamate sul teatro e quelle dal teatro esperite non possono sempre combaciare armoniosamente; sono appunto le loro contorte interferenze e sfasature a corroborare la vitalità e la polifonia della sua storia.