“Scrivo […] l’estremo riflesso di una parola assente dalla scrittura, lo scandalo del loro silenzio e del mio silenzio: non scrivo per dire che non dirò niente, non scrivo per dire che non ho niente da dire” (Perec 1991: 52). È questa la spiegazione che Georges Perec, uno dei maggiori scrittori del Novecento francese, adduce per chiarire le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere il suo romanzo “autobiografico” W o il ricordo d’infanzia (1975). Le virgolette sono necessarie in quanto si tratta di un’opera peculiare. Perec, rimasto orfano in tenera età, fonda tutta la sua missione creatrice sull’intenzione di riempire il vuoto e l’assenza che costituiscono la sua infanzia, le sue radici, il principio di un percorso di sviluppo di cui non ha trattenuto nessun elemento. Rimangono solo alcuni ricordi, peraltro confusi, nebulosi e non del tutto affidabili. Sono la prima traccia di un passato che, per quanto informe, costituisce la base di un’esistenza che ha concretezza solo nell’età adulta. E allora Perec riparte dai ricordi e dalle poche fotografie ingiallite per riannodare la sua esistenza attuale con lo “scandalo del silenzio” che caratterizza la sua infanzia. L’unico mezzo per restituire consistenza ad una fase di vuoto è la scrittura. Lasciare un segno su una pagina bianca significa ricostruire la biografia occultata (Béhart 1995: 102) con un tratto nero e individuare una parola che sia in grado di riprodurre quello stato confuso che caratterizza la prima fase della sua esistenza:
Io non so se non ho niente da dire, so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non viene detto perché è l’indicibile (l’indicibile non si rintana nella scrittura ma è quello che, molto prima l’ha scatenata); so che quello che dico è bianco, è neutro, è segno una volta per tutte di un annientamento. (Perec 1991: 52)